A Maidanek incontrai una ragazzina ebrea che era rimasta lì, invece di andarsene. Non capivo perché. Aveva perso i nonni, i genitori e tutti i fratelli e le sorelle nel campo di concentramento. Siccome la camera a gas era stata riempita fino all’orlo e non ci entrava più nemmeno un’altra persona, lei aveva avuto salva la vita.
In preda all’orrore le domandai: “Che cosa ci fai ancora qui? Perché rimani in questo posto disumano?”
Lei rispose: “Nelle ultime settimane di prigionia ho giurato a me stessa che sarei sopravvissuta, se non altro per raccontare al mondo tutti gli orrori dei Nazisti e dei campi di concentramento. Poi sono arrivati i soldati della liberazione. Io li ho guardati e mi sono detta: ‘No. Se facessi questo, non sarei migliore di Hitler’. Perché che altro avrei fatto, se non piantare altri semi di odio e negatività, nel mondo? Se invece riesco davvero a convincermi che a nessuno viene dato più di quanto possa sopportare, che non siamo mai soli, che posso riconoscere la tragedia e l’incubo di Maidanek e lasciarmeli dietro le spalle, che se posso toccare una sola vita umana e distoglierla dalla negatività, dall’odio, dalla vendetta e dall’amarezza e trasformare quella persona in qualcuno capace di amare e prendersi cura degli altri, allora sarà valsa la pena di attraversa tutto questo e io avrò meritato di sopravvivere”.
Tratto da La morte è di vitale importanza di Elisabeth Kubler-Ross