C’era un ragazzino che sognava di diventare chitarrista. Venne il suo compleanno e come regalo chiese, ovviamente, una chitarra. Era molto bella. Piena di corde, però.
Provò timidamente a toccarle e ne fu respinto. Allora le accarezzò. Emisero un gorgoglio ottuso: niente a che spartire col mondo di suoni che lui si sentiva dentro. «Andrò da un insegnante di musica», disse. Aveva saputo da qualche parte che quando un sogno ti resta incollato addosso significa che non è più un’illusione, ma un segnale che ti sta indicando la tua missione nella vita. Cucinare. Fare calcoli. Riparare orologi. Ciascuno di noi ha la sua e l’errore è credere che una sia più importante dell’altra, solo perché non tutte procurano fama e denaro.
Il ragazzino era sicuro che la sua missione fosse tirare fuori dalla pancia quei suoni. Così andò a lezione. Non capì niente. Ci ritornò e fu peggio. «Mi arrendo, il sogno era falso: io non ho talento per la musica».
Se non s’imbottì di Prozac, è solo perché non esisteva ancora. Nascose la chitarra in un baule e accese la radio. Lo invase un suono semplice, nuovo: pochi accordi ritmati. I disc-jockey dell’epoca lo chiamavano skiffle, ma era già il rock.
Il ragazzino riaprì il baule e provò il primo accordo. In quel momento capì che per sapere se un sogno era giusto occorreva prima rinnegarlo, affinché la vita te lo restituisse per sempre con una rivelazione improvvisa. Raccontò la sua scoperta a un amico, che ieri in un’intervista l’ha raccontata al mondo.
Ah, quel ragazzino si chiamava John Lennon.
Tratto da Ci salveranno gli ingenui, Massimo Gramellini